Ambiente, Generale

Saggio, Lobbista o Complottista? Come cogliere le opportunità ed evitare le minacce dei cambiamenti climatici

NASA Earth Observatory Image
Immagine tratta da NASA Earth Observatory.

L’argomento dei cambiamenti climatici ha ormai assunto proporzioni quasi ossessive nel dibattito pubblico e, come tutte le degenerazioni, si presta a strumentalizzazioni da parte di chi cerca di trarre profitto, approfittando dell’ignoranza diffusa sull’argomento, anche tra presunti esperti.

Con un po’ di ironia e un pizzico di sarcasmo mi piace identificare tre tipologie di approccio a questo argomento: quello del “lobbista”, quello del “complottista” e quello del “saggio”. Il “lobbista” si divide ulteriormente in due categorie: il “lobbista potente” e il “lobbista sfigato

Il “lobbista potente” opera principalmente, anche se non esclusivamente, nei settori della manifattura di componentistica per impianti di produzione di energia rinnovabile, batterie di accumulo e centrali di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Si tratta di una lobby molto potente, che muove enormi risorse finanziarie. La loro propaganda è basata sulla necessità assoluta di ridurre l’uso delle fonti fossili, che, secondo loro, sono l’unica fonte di emissioni di gas climalteranti, per evitare che fra qualche anno la Terra venga sconvolta da un “Armageddon” causato dagli incipienti sconvolgimenti climatici dovuti all’aumento della temperatura media globale.

Il gas climalterante per eccellenza è l’anidride carbonica (CO₂), prodotta, insieme al vapore acqueo (H₂O), nei processi di combustione. Altri gas climalteranti sono: il metano (CH₄), che proviene, ad esempio, dalle discariche o dalle attività agricole come allevamenti o risaie; il protossido di azoto (N₂O), che deriva dall’uso di fertilizzanti azotati in agricoltura e dai processi di decomposizione della materia organica nella gestione delle acque reflue e dei rifiuti; gli idrofluorocarburi (HFC), utilizzati come refrigeranti, propellenti e solventi, che hanno comunque un impatto significativo sull’effetto serra, seppur minore rispetto ai clorofluorocarburi (CFC), attualmente sostituiti; i perfluorocarburi (PFC), prodotti nella lavorazione dell’alluminio e nella produzione di semiconduttori; l’esafluoruro di zolfo (SF₆), utilizzato come isolante elettrico nei trasformatori e nelle apparecchiature elettroniche; i già menzionati clorofluorocarburi (CFC), ora progressivamente eliminati con il Protocollo di Montreal per il loro effetto dannoso sull’ozono e il loro forte contributo al riscaldamento globale; e l’ozono troposferico (O₃), che, sebbene non venga emesso direttamente, si forma a partire da reazioni chimiche tra altri inquinanti (ossidi di azoto e composti organici volatili) e agisce come gas serra a livello del suolo.

Il vapore acqueo merita un commento, perché non tutti sanno che è un potente agente climalterante e il suo effetto si autoamplifica: l’aumento della temperatura provoca maggiore evaporazione dell’acqua, che a sua volta amplifica l’effetto serra, facendo ulteriormente aumentare la temperatura e causando ancora più evaporazione. L’accumulo di vapore acqueo nell’atmosfera, causato dall’incremento delle temperature, è una delle cause delle piogge intense e delle inondazioni, la cui frequenza è in aumento.

Se è vero che la riduzione delle emissioni di anidride carbonica è un obiettivo sensato, sia dal punto di vista ambientale che da quello tecnico, perché significa utilizzare meno combustibili e quindi sfruttare meglio le risorse naturali, è grossolanamente errato pensare di risolvere il problema dei cambiamenti climatici riducendo solo localmente le emissioni di gas climalteranti, infatti, la CO₂ e altri gas serra si accumulano nell’atmosfera e si distribuiscono uniformemente intorno al pianeta, indipendentemente da dove vengono emessi. Anche se l’Europa riducesse le proprie emissioni a zero, se le altre grandi economie, come ad esempio la Cina e l’India continuassero a emettere quantità crescenti di gas serra, la concentrazione globale di CO₂ continuerebbe ad aumentare. A tal proposito, è illuminante leggere i dati del report sulle emissioni di tutto il mondo prodotto annualmente dal Joint Research Centre (JRC) dell’Unione Europea. Il “GHG emissions of all world countries – JRC/IEA 2023 Report” evidenzia che nel 2023, rispetto al 2022, l’Europa a 27 ha ridotto le emissioni globali del 7%, gli Stati Uniti dell’1%, mentre la Cina le ha aumentate del 5% e l’India del 6%. Complessivamente, il mondo ha incrementato le sue emissioni del 2% rispetto al 2022 e del 62% rispetto al 1990. È quindi evidente che un approccio basato su riduzioni localizzate, nelle aree occidentali, non può bilanciare le emissioni globali, principalmente dovute alle regioni orientali del mondo, dove le tematiche ambientali sono subordinate agli interessi economici degli Stati.

Nella propaganda dei “lobbisti potenti”, troviamo i “lobbisti sfigati”, che cercano di sfruttare l’isteria sul cambiamento climatico per trarre piccoli benefici d’immagine, funzionali a limitati vantaggi commerciali o politici. Sono in pratica la manovalanza inconsapevole dei lobbisti potenti, amplificando la loro propaganda per obiettivi ben più grandi. Si tratta, ad esempio, degli esperti di greenwashing, una strategia di marketing utilizzata per dare l’impressione ingannevole di essere ecologicamente sostenibili per attrarre consumatori o elettori sensibili alle tematiche ecologiche. In realtà, le loro azioni o politiche spesso non corrispondono alle dichiarazioni.

Ad esempio non possono definirsi “eco”, un SUV che pesa tre tonnellate, una bottiglia di plastica o la busta della spesa spacciata per “biodegradabile” in una zona dove non vi sono impianti capaci di “biodegradarla”, un opera pubblica che preveda la piantumazione di qualche alberello, la creazione di una pista ciclabile o l’installazione di un piccolo impianto fotovoltaico ma che utilizzi materiali tradizionali senza una valutazione della effettiva “carbon footprint” ossia del bilancio complessivo del carbonio dell’intero progetto. È un modo poco corretto per manipolare il cittadino comune, che ignora gli aspetti tecnici e scientifici coinvolti.

Il “Complottista”, ossia il negazionista del cambiamento climatico, è un personaggio pittoresco, con sfaccettature variegate, che spaziano dal fondamentalismo dei terrapiattisti, alla pseudo scientificità dei negazionisti dell’allunaggio, per finire al cospirazionismo dei teorici del “Nuovo Ordine Mondiale”. Le loro tipiche frasi sono: “non vi è alcun motivo di allarmarsi, ci sono sempre state le estati calde”, “è il normale ciclo del Sole”, “le catastrofi naturali sono sempre esistite, non è colpa del clima”, Gli allarmisti climatici vogliono solo controllare le nostre vite”, “Le emissioni di CO₂ fanno bene alle piante, quindi sono utili!”, “Ci sono state epoche glaciali e periodi caldi ben prima dell’uomo.”, “Il cambiamento climatico è solo una scusa per aumentare le tasse.”

I complottisti sono persone che si informano principalmente su internet navigando tra siti che sfruttano la loro limitata cultura per trarre profitti economici. Sono, in fondo, anch’essi manovalanza inconsapevole dell’altra potente lobby, quella dei combustibili fossili.

L’approccio “saggio” riconosce che i lobbisti, essendo orientati alla tutela di interessi economici di parte non possono generare una visione utile per la collettività. Riconosce inoltre che l’approccio complottista non ha alcun fondamento scientifico.

Il “saggio” prende atto che dall’inizio degli anni Settanta c’è una tendenza anomala all’aumento della temperatura media globale, che i ghiacci si stanno sciogliendo e gli eventi meteorologici estremi sono in crescita. Riconosce che nonostante i numerosi indizi, la responsabilità antropica dei cambiamenti climatici non è ancora provata univocamente, ma si rende conto che, anche se i cambiamenti climatici fossero causati dall’uomo, ci vorrebbero decenni per tornare ai livelli precedenti e questo non fermerà immediatamente gli eventi estremi. Si rende conto, che la riduzione delle emissioni di gas climalteranti limitata al mondo occidentale non compensa gli incrementi del mondo orientale, e principalmente Cina ed India, per cui il livello di gas serra globalmente aumenta. Riconosce che la riduzione delle emissioni di anidride carbonica è positiva perché significa migliorare il rendimento dei processi industriali e, quindi, ridurre il consumo delle risorse naturali, ma si rende anche contro che tali interventi sono costosi e richiedono l’utilizzo di materie prime e prodotti provenienti dalle principali economie orientali e che una gestione inappropriata di questi processi può generare squilibri geopolitici e tensioni sociali interne ai singoli stati per l’impatto microeconomico che queste misure possono generare su imprese e famiglie.

La naturale conseguenza dell’approccio saggio è che insieme con gli investimenti tendenti alla riduzione delle emissioni di gas serra, bisogna investire nella realizzazione di adeguate opere di mitigazione degli effetti degli eventi estremi e di adattamento ai cambiamenti climatici, per smettere di dover piangere morti e stanziare fondi per la ricostruzione delle aree interessate da alluvioni e inondazioni. Il Dr. Jason Ur dell’Università di Harvard, citato anche nell’articolo di Emily Sohn “Climate change and the rise and fall of civilizations” pubblicato nella sezione web del sito della NASA dedicato ai cambiamenti climatici, riportando il risultato dei suoi studi, dice: “When we excavate the remains of past civilizations, we rarely find any evidence that they made any attempts to adapt in the face of a changing climate. I view this inflexibility as the real reason for collapse.” Ossia, in tutte le civiltà che si sono estinte in passato, non si rileva alcun tentativo di adeguarsi ai cambiamenti climatici, che è stata quindi una delle cause della loro caduta. La civiltà egizia, ad esempio, crollò durante una prolungata siccità 4.200 anni fa, così come quella dei Maya intorno al 900 d.C. La scomparsa della spettacolare città cambogiana di Angkor nei primi anni del 1400 è avvenuta per l’effetto combinato dei cambiamenti climatici accoppiati al degrado ambientale dovuto alla deforestazione e all’erosione del suolo. L’incapacità di adattarsi ai periodi di prolungata siccità alternati a forti alluvioni avvenuti verso la fine del XIV secolo hanno destabilizzato la stabilità economica e l’agricoltura, che erano fondamentali per il sostentamento della popolazione contribuendo alla sua scomparsa. L’adattamento ai cambiamenti climatici, quindi, è anche un modo per preservare le nostre civiltà.

La transizione energetica e i cambiamenti climatici rappresentano opportunità e minacce anche per la nostra piccola collettività paesana.

L’agricoltura, per esempio, che è uno dei nostri settori più importanti si sta già confrontando con i cambiamenti climatici, prima fra tutte la quantità e la distribuzione nel corso dell’anno delle piogge, che richiede interventi tempestivi sia per preservare le nostre specie agricole sia per mantenere la produttività dei nostri terreni.

Nuove opportunità si aprono anche nei settori energetici, delle tecnologie dell’informazione, ambientale e, anche, nei settori delle opere pubbliche relativamente alla necessità di realizzare le opere di mitigazione per gli eventi meteorologici estremi. Per cogliere queste opportunità è necessaria una mentalità orientata all’innovazione e un approccio sinergico fra il settore produttivo e il mondo della ricerca pubblica e privata, in un ambiente sociale sano in cui i governi locali, nazionali e sovranazionali creino le condizioni migliori per poter operare in serenità con efficacia ed efficienza, in un sistema commerciale competitivo globalizzato dove, purtroppo, non tutti i giocatori, giocano con le stesse regole.

La mia Città

Il provincialismo dei coratini: un freno allo sviluppo o uno strumento di resilienza?

Nel corso della mia vita ho sempre rilevato, tra molti dei miei concittadini, una forte influenza della cultura del provincialismo, ossia quella mentalità e atteggiamento difensivo verso il cambiamento e la modernità. Nel corso degli anni, pur mutando forma, questa attitudine è rimasta presente nella nostra comunità.

Ho iniziato a percepirlo negli anni Ottanta, quando ho sviluppato un minimo di senso critico. Il conservatorismo, il rifiuto del nuovo e la diffusione di stereotipi e pregiudizi erano largamente presenti tra la gente comune di mezza età, con istruzione media, ma anche alta. Purtroppo, questa mentalità era diffusa anche tra molti insegnanti, dalle scuole elementari alle superiori, incluso il famoso Liceo Classico Oriani.

La collocazione geografica della nostra città, lontana sia dai confini nazionali che dalle grandi città, e la scarsa propensione a viaggiare, soprattutto all’estero, hanno contribuito a sviluppare e mantenere la cultura del provincialismo. La cronica debolezza della lira che rendeva estremamente costoso per una famiglia di ceto medio spostarsi fuori dai confini nazionali, quando ancora non esistevano le compagnie aeree low-cost era un’ulteriore barriera per chi volesse viaggiare.

I Coratini sono stati un popolo di emigranti ma non di viaggiatori. Il primo flusso migratorio si è verificato tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, a causa della difficile situazione agricola e della mancanza di lavoro. Le mete più comuni erano le Americhe, in particolare Stati Uniti, Venezuela, Argentina e Brasile. La seconda ondata di emigrazione si è avuta subito dopo la Seconda guerra mondiale, con destinazioni europee come Germania, Francia e Belgio oltre alle Americhe, come nel primo flusso.

I nostri emigranti sono sempre stati grandi lavoratori. In Sud America, erano principalmente impiegati nel settore agricolo e delle infrastrutture, dove vi era una grande richiesta di manodopera e l’immigrazione era incentivata, ad esempio, offrendo terre a titolo gratuito o a basso costo. In Venezuela, il flusso migratorio era guidato dalle opportunità economiche legate allo sviluppo industriale e alla ricchezza petrolifera. Negli Stati Uniti, la rapida industrializzazione e la crescita economica richiedevano una grande quantità di manodopera a cui gli Italiani, inclusi i Coratini hanno contribuito significativamente. La prima ondata migratoria negli Stati Uniti durò fino all’inizio del XX secolo, quando le politiche di immigrazione erano relativamente aperte. La Ellis Island Immigration Station, aperta nel 1892, divenne un importante punto di ingresso per milioni di immigrati. La seconda ondata verso gli Stati Uniti fu favorita dall’Immigration and Nationality Act del 1965, che abolì le quote introdotte nel 1924 per limitare l’immigrazione dall’Italia e da altri paesi dell’Europa meridionale e orientale.

Gli italiani, inclusi i coratini, trovavano spesso lavoro in settori a bassa qualifica, come edilizia, ferrovie, miniere e fabbriche. Le condizioni di lavoro erano dure e i salari bassi. Gli italiani affrontarono discriminazione e pregiudizi, furono anche vittime di violenze come il linciaggio di 11 italiani a New Orleans nel 1891. Nonostante le difficoltà, lavorarono duramente per migliorare la loro situazione economica e sociale pur rimanendo spesso emarginati. Solo la seconda generazione di italo-americani iniziò a integrarsi pienamente nella società americana, ottenendo migliori opportunità educative e lavorative.

Negli anni Ottanta, l’immagine degli emigranti che veniva trasmessa a noi adolescenti era quella romantica del ricco “Zio d’America” o dell’emigrante tornato in Italia con il suo gruzzoletto da investire che faceva una vita agiata rispetto agli standard medi. Anni di sacrifici, umiliazioni e povertà venivano sottaciuti, forse per un pizzico di dignità e orgoglio.

Gli anni ’80, inoltre, furono quelli della “Milano da Bere”, durante i quali Milano divenne il simbolo della crescita economica e del cambiamento sociale in Italia. La campagna pubblicitaria dell’amaro Ramazzotti contribuì a promuovere uno stile di vita caratterizzato da ostentazione di lusso e mondanità. I locali alla moda, le serate mondane e un generale senso di edonismo e successo erano percepiti come obiettivi impossibili da raggiungere in una realtà provinciale come la nostra.

L’immagine dello “Zio d’America” e quella dello yuppie della “Milano da bere” generarono negli adolescenti degli anni Ottanta una visione romantica e irrealistica di tutto ciò che è lontano, idealizzando questi luoghi remoti come simboli di progresso e modernità. Questa immagine, tuttavia, era deformata dalla mancanza di conoscenza diretta delle condizioni di vita del luogo, dove la “Milano da Bere” che si vedeva in televisione era ben diversa dalla realtà della maggioranza delle famiglie che doveva barcamenarsi fra affitti elevati, bollette e costo della vita elevato in generale per chi disponeva del modesto stipendio da lavoratore dipendente.

Il risultato della somma del mito dell’emigrante, dello yuppie, delle scarse opportunità di una terra inaridita da una politica clientelare, da una classe dirigente corrotta, da una struttura scolastica incapace di promuovere una cultura imprenditoriale foriera di crescita economica e generatrice di opportunità professionali e delle frustrazioni per gli insuccessi professionali e stato quello di trasformare la cultura del provincialismo in cultura dell’esterofilia.

I figli degli adolescenti degli anni Ottanta, cresciuti a pane ed esterofilia, sono oggi i protagonisti dell’emigrazione contemporanea. Questa nuova migrazione è alimentata dal pregiudizio che nella propria città di origine non funziona niente e non ci sono opportunità. Anche i nuovi migranti, spesso, partono da provinciali, con poca esperienza di viaggio e con difficoltà di integrazione nei paesi di destinazione. Tuttavia, a differenza dei migranti delle prime ondate, hanno una minore capacità di sopportare sacrifici e adattamenti, richiedendo spesso il supporto finanziario dei genitori rimasti a Corato.

Questa degenerazione del provincialismo in esterofilia è oggi un problema significativo per la nostra città perché genera una perdita significativa di risorse umane spesso sottoutilizzate nei paesi di approdo. La scarsa propensione ad avviare iniziative imprenditoriali, la mancanza di fiducia in sé stessi, di amore verso il paese di origine e la convinzione pregiudiziale di dover partire a tutti i costi sono i motori della migrazione contemporanea, che spinge i nostri giovani ad accettare spesso ruoli poco gratificanti, qualità della vita inferiore al paese di origine e l’umiliazione di dover chiedere un aiuto economico ai propri genitori.

Eppure, il provincialismo dei genitori degli adolescenti degli anni Ottanta aveva anche aspetti positivi: la conservazione delle tradizioni, il senso di appartenenza e solidarietà verso la comunità, l’alta qualità della vita caratterizzata da poco stress, poco inquinamento, sicurezza e relazioni familiari più strette. Aveva anche un impatto positivo sull’economia locale, con una preferenza per le aziende e i negozi del luogo rispetto alle grandi corporazioni italiane o straniere. Da un punto di vista imprenditoriale, la reazione conservatrice al cambiamento, tipica dell’atteggiamento provinciale, spesso impediva di commettere errori gravi o di prendere decisioni affrettate e pericolose.

Nonostante i suoi aspetti positivi il provincialismo rappresenta sempre un limite al progresso culturale, sociale ed anche economico. Su questo aspetto Umberto Eco, nel suo libro “La cultura del provincialismo”, è estremamente chiaro e severo. La strategia che propone per superarlo prevede una maggiore apertura verso il mondo esterno e un impegno per il dialogo interculturale attraverso la promozione di un’educazione che incoraggi una visione globale e l’apertura verso altre culture, alimentando il dialogo e lo scambio di idee tra diverse comunità. La visione totalmente negativa di Eco sul provincialismo, tuttavia, può essere mitigata valorizzando alcuni aspetti del provincialismo che possono rappresentare uno strumento di resilienza in un’ottica di preservazione culturale, contribuendo in modo significativo al miglioramento della qualità della vita e della sostenibilità di una comunità, bilanciando questi benefici con le opportunità offerte dalla modernizzazione e dalla globalizzazione.

Generale

Come passa in fretta il tempo

Era il luglio del 1997. Un quarto di secolo fa.

Le slide erano stampate su fogli lucidi e si proiettavano su un telo bianco con la lavagna luminosa, ormai un oggetto vintage che pochi conoscono o ricordano.

Il computer utilizzato per scrivere la tesi me lo ero assemblato per conto mio un paio di anni prima per risparmiare i soldi per le vacanze. Avevo messo dentro la scatola “desktop” un processore intel 486 a 66MHz, un Hard Disk Ide da 540MB e due RAM da 32Mb.

Il monitor CRT da 15 pollici occupava quasi metà scrivania. Il PC arrancava un po’ dopo aver sostituito Windows 3.11 con Windows 95, ma quando facevo girare i miei codici scritti in Fortran era quasi più veloce delle workstation UNIX che usavo nell’allora “Istituto di Macchine ed Energetica”.

A me sembra ieri, ma mi rendo conto che non è così: il peso è aumentato, i capelli sono diventati bianchi e devo usare gli occhiali da vicino.

Superato il traguardo dei 50 anni cominci a riflettere su ciò che è stato e su ciò che vorrai per gli anni che ti restano da vivere. Non so se, potendo tornare indietro, rifarei tutto ciò che ho fatto. Sicuramente non mi sono annoiato, ma forse, con l’età che avanza, rallentare un po’ non è proprio una cattiva idea.

Generale

Quarant’anni dai mondiali del 1982

Avevo undici anni ed ero cresciuto con l’idea che l’Italia era un po’ una nazione di serie B.

Era pericoloso viaggiare perchè mettevano le bombe nelle stazioni, gli aerei cadevano non si sa bene perchè e ogni tanto c’era qualche sparatoria nelle grandi città dove moriva qualcuno “per sbaglio”.

Anche i mondiali dell’ ’82 in Spagna erano cominciati con la stessa tiritera: la squadra è debole, non siamo capaci di organizzarci, i giocatori sono quelli sbagliati e via discorrendo.

Poi ci fu l’Argentina e poi il Brasile: il riscatto.

L’11 Luglio del 1982 era una giornata calda, qualcuno aveva stampato goliardicamente dei manifesti funebri che riportavano il decesso della “Germania” dopo 90 minuti di agonia e li vendeva per fare un po’ di soldi.

E poi la partita, il televisore “Mivar” a tubo catodico da 24 pollici con quell’azzurro “PAL” che si estendeva un po’ oltre la maglietta, appena sfocata, dei calciatori, il nonno con la canottiera e i pantaloncini vicino al balcone e io dietro il tavolo a tre metri di distanza dal televisore, perchè più vicino c’erano “le radiazioni”.

Il rigore sbagliato e la paura di ritornare alla realtà di un Paese in cui “non funziona nulla”.

E invece no, tutto filò liscio, compreso il corteo di auto con i clacson suonati istericamente, il treruote con tre bambini che sventolavano magliette verdi, bianche e rosse mentre stavano in piedi nel cassone posteriore in spregio delle più elementari norme di sicurezza e la cinquecento con il tettuccio apribile popolata da almeno sei persone che si sporgevano agitando improbabili drappi di tessuto indecifrabile.

Finalmente c’era qualcosa di cui anch’io potevo andare orgoglioso, mi sentivo anch’io un po’ Campione del Mondo e il mio idolo era lui: “Dino Zoff”. Poi, purtroppo, sono diventato grande.

Travels

Aeolian Sailing – Il ritorno

Il ritorno: Filicudi – Termini Imerese

La settimana alle Eolie è purtroppo finita. Ripartiamo verso Termini Imerese intorno alle 8.00 di mattina per percorrere le 52 miglia ad una velocità di 6kts con arrivo previsto alle 16.30 circa.

In lontananza si staglia l’isola di Alicudi.



I delfini non potevano mancare.

Una volta a terra, i resti dell’acquedotto romano a Termini Imerese ci dicono che questa settimana alle Eolie è davvero finita.

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