Nel corso della mia vita ho sempre rilevato, tra molti dei miei concittadini, una forte influenza della cultura del provincialismo, ossia quella mentalità e atteggiamento difensivo verso il cambiamento e la modernità. Nel corso degli anni, pur mutando forma, questa attitudine è rimasta presente nella nostra comunità.
Ho iniziato a percepirlo negli anni Ottanta, quando ho sviluppato un minimo di senso critico. Il conservatorismo, il rifiuto del nuovo e la diffusione di stereotipi e pregiudizi erano largamente presenti tra la gente comune di mezza età, con istruzione media, ma anche alta. Purtroppo, questa mentalità era diffusa anche tra molti insegnanti, dalle scuole elementari alle superiori, incluso il famoso Liceo Classico Oriani.
La collocazione geografica della nostra città, lontana sia dai confini nazionali che dalle grandi città, e la scarsa propensione a viaggiare, soprattutto all’estero, hanno contribuito a sviluppare e mantenere la cultura del provincialismo. La cronica debolezza della lira che rendeva estremamente costoso per una famiglia di ceto medio spostarsi fuori dai confini nazionali, quando ancora non esistevano le compagnie aeree low-cost era un’ulteriore barriera per chi volesse viaggiare.
I Coratini sono stati un popolo di emigranti ma non di viaggiatori. Il primo flusso migratorio si è verificato tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, a causa della difficile situazione agricola e della mancanza di lavoro. Le mete più comuni erano le Americhe, in particolare Stati Uniti, Venezuela, Argentina e Brasile. La seconda ondata di emigrazione si è avuta subito dopo la Seconda guerra mondiale, con destinazioni europee come Germania, Francia e Belgio oltre alle Americhe, come nel primo flusso.
I nostri emigranti sono sempre stati grandi lavoratori. In Sud America, erano principalmente impiegati nel settore agricolo e delle infrastrutture, dove vi era una grande richiesta di manodopera e l’immigrazione era incentivata, ad esempio, offrendo terre a titolo gratuito o a basso costo. In Venezuela, il flusso migratorio era guidato dalle opportunità economiche legate allo sviluppo industriale e alla ricchezza petrolifera. Negli Stati Uniti, la rapida industrializzazione e la crescita economica richiedevano una grande quantità di manodopera a cui gli Italiani, inclusi i Coratini hanno contribuito significativamente. La prima ondata migratoria negli Stati Uniti durò fino all’inizio del XX secolo, quando le politiche di immigrazione erano relativamente aperte. La Ellis Island Immigration Station, aperta nel 1892, divenne un importante punto di ingresso per milioni di immigrati. La seconda ondata verso gli Stati Uniti fu favorita dall’Immigration and Nationality Act del 1965, che abolì le quote introdotte nel 1924 per limitare l’immigrazione dall’Italia e da altri paesi dell’Europa meridionale e orientale.
Gli italiani, inclusi i coratini, trovavano spesso lavoro in settori a bassa qualifica, come edilizia, ferrovie, miniere e fabbriche. Le condizioni di lavoro erano dure e i salari bassi. Gli italiani affrontarono discriminazione e pregiudizi, furono anche vittime di violenze come il linciaggio di 11 italiani a New Orleans nel 1891. Nonostante le difficoltà, lavorarono duramente per migliorare la loro situazione economica e sociale pur rimanendo spesso emarginati. Solo la seconda generazione di italo-americani iniziò a integrarsi pienamente nella società americana, ottenendo migliori opportunità educative e lavorative.
Negli anni Ottanta, l’immagine degli emigranti che veniva trasmessa a noi adolescenti era quella romantica del ricco “Zio d’America” o dell’emigrante tornato in Italia con il suo gruzzoletto da investire che faceva una vita agiata rispetto agli standard medi. Anni di sacrifici, umiliazioni e povertà venivano sottaciuti, forse per un pizzico di dignità e orgoglio.
Gli anni ’80, inoltre, furono quelli della “Milano da Bere”, durante i quali Milano divenne il simbolo della crescita economica e del cambiamento sociale in Italia. La campagna pubblicitaria dell’amaro Ramazzotti contribuì a promuovere uno stile di vita caratterizzato da ostentazione di lusso e mondanità. I locali alla moda, le serate mondane e un generale senso di edonismo e successo erano percepiti come obiettivi impossibili da raggiungere in una realtà provinciale come la nostra.
L’immagine dello “Zio d’America” e quella dello yuppie della “Milano da bere” generarono negli adolescenti degli anni Ottanta una visione romantica e irrealistica di tutto ciò che è lontano, idealizzando questi luoghi remoti come simboli di progresso e modernità. Questa immagine, tuttavia, era deformata dalla mancanza di conoscenza diretta delle condizioni di vita del luogo, dove la “Milano da Bere” che si vedeva in televisione era ben diversa dalla realtà della maggioranza delle famiglie che doveva barcamenarsi fra affitti elevati, bollette e costo della vita elevato in generale per chi disponeva del modesto stipendio da lavoratore dipendente.
Il risultato della somma del mito dell’emigrante, dello yuppie, delle scarse opportunità di una terra inaridita da una politica clientelare, da una classe dirigente corrotta, da una struttura scolastica incapace di promuovere una cultura imprenditoriale foriera di crescita economica e generatrice di opportunità professionali e delle frustrazioni per gli insuccessi professionali e stato quello di trasformare la cultura del provincialismo in cultura dell’esterofilia.
I figli degli adolescenti degli anni Ottanta, cresciuti a pane ed esterofilia, sono oggi i protagonisti dell’emigrazione contemporanea. Questa nuova migrazione è alimentata dal pregiudizio che nella propria città di origine non funziona niente e non ci sono opportunità. Anche i nuovi migranti, spesso, partono da provinciali, con poca esperienza di viaggio e con difficoltà di integrazione nei paesi di destinazione. Tuttavia, a differenza dei migranti delle prime ondate, hanno una minore capacità di sopportare sacrifici e adattamenti, richiedendo spesso il supporto finanziario dei genitori rimasti a Corato.
Questa degenerazione del provincialismo in esterofilia è oggi un problema significativo per la nostra città perché genera una perdita significativa di risorse umane spesso sottoutilizzate nei paesi di approdo. La scarsa propensione ad avviare iniziative imprenditoriali, la mancanza di fiducia in sé stessi, di amore verso il paese di origine e la convinzione pregiudiziale di dover partire a tutti i costi sono i motori della migrazione contemporanea, che spinge i nostri giovani ad accettare spesso ruoli poco gratificanti, qualità della vita inferiore al paese di origine e l’umiliazione di dover chiedere un aiuto economico ai propri genitori.
Eppure, il provincialismo dei genitori degli adolescenti degli anni Ottanta aveva anche aspetti positivi: la conservazione delle tradizioni, il senso di appartenenza e solidarietà verso la comunità, l’alta qualità della vita caratterizzata da poco stress, poco inquinamento, sicurezza e relazioni familiari più strette. Aveva anche un impatto positivo sull’economia locale, con una preferenza per le aziende e i negozi del luogo rispetto alle grandi corporazioni italiane o straniere. Da un punto di vista imprenditoriale, la reazione conservatrice al cambiamento, tipica dell’atteggiamento provinciale, spesso impediva di commettere errori gravi o di prendere decisioni affrettate e pericolose.
Nonostante i suoi aspetti positivi il provincialismo rappresenta sempre un limite al progresso culturale, sociale ed anche economico. Su questo aspetto Umberto Eco, nel suo libro “La cultura del provincialismo”, è estremamente chiaro e severo. La strategia che propone per superarlo prevede una maggiore apertura verso il mondo esterno e un impegno per il dialogo interculturale attraverso la promozione di un’educazione che incoraggi una visione globale e l’apertura verso altre culture, alimentando il dialogo e lo scambio di idee tra diverse comunità. La visione totalmente negativa di Eco sul provincialismo, tuttavia, può essere mitigata valorizzando alcuni aspetti del provincialismo che possono rappresentare uno strumento di resilienza in un’ottica di preservazione culturale, contribuendo in modo significativo al miglioramento della qualità della vita e della sostenibilità di una comunità, bilanciando questi benefici con le opportunità offerte dalla modernizzazione e dalla globalizzazione.